L’Africa può risorgere di Mohamed Konare

https://youtu.be/zsL2NoR2BY0

Di seguito un sunto di ciò che dice Konare per chi non volesse ascoltare tutta l’intervista stigmatizzato dal Prof. Lorenzo Kamel.

E’ vergognoso ed ignobile.

Il 61% dei 67 colpi di stato avvenuti negli ultimi 50 anni in 26 paesi africani ha avuto luogo in ex-colonie francesi. Il 50% delle riserve monetarie di 14 paesi africani sono ancora oggi sotto il pieno controllo di Parigi: nessuno di essi ha alcun controllo sulle proprie politiche monetarie e macroeconomiche. La Francia “ottiene” ogni anno da paesi africani miliardi di euro sotto forma di “riserve monetarie”, salvo poi prestare parte di quegli stessi fondi ai legittimi proprietari a tassi di mercato.

E noi ci focalizziamo sull’anello finali della catena”, – Ong, “hotspot”, “flussi migratori irregolari” ecc. – ovvero concentrano l’attenzione sulle “ondate migratorie” verso l’Europa, tralasciando le condizioni strutturali alla base di questi fenomeni.

Possedimenti post-coloniali

Numerosi accordi siglati in anni recenti dall’Ue in diverse regioni dell’Africa si sono rilevati in larga misura dannosi per le popolazioni locali, non ultimo in quanto hanno esposto economie fragili a forme di concorrenza sleale. Oltre ad adottare tecniche di “divide et impera” durante le negoziazioni con i paesi africani, questi accordi hanno anche ridotto i commerci intra-africani.

A ciò si aggiunga che molti di essi sono stati firmati da paesi che risultano ancora oggi essere “subalterni” a potenze esterne alla regione: ciò compromette la loro possibilità di negoziare in modo paritetico e indipendente.

È questo il caso dell’accordo – legato alla cooperazione allo sviluppo e lo scambio di merci – firmato il 24 febbraio 2014 dall’Ue e dalla Economic community of west african states (ECOWAS).

Quasi tutti i paesi che fanno parte dell’ECOWAS e dell’UEMOA (West african cconomic and monetary union) – inclusi Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea, Guinea-Bissau, Mali, Niger e Senegal – rappresentano di fatto dei “possedimenti post-coloniali”.

La Banca centrale di ciascuno di questi paesi è infatti costretta a mantenere almeno il 50% delle sue riserve valutarie in un “conto operativo” controllato dal ministero del Tesoro francese, nonché un altro 20% a copertura delle passività finanziarie.

A ciò si aggiunga che ancora oggi i Franchi CFA, che sono in realtà due diverse valute entrambe garantite dal Tesoro francese, sono utilizzati come valute ufficiali in 14 paesi dell’Africa occidentale e centrale.

I Franchi CFA non possono essere convertiti in nessun’altra moneta che non sia l’euro. Ciò significa che ognuno di questi paesi è ipso facto escluso dal Forex (Foreign exchange market), il più grande mercato al mondo.

Si potrebbe obiettare che i paesi che utilizzano queste monete siano liberi di abbandonarle in qualsiasi momento. In realtà, per potersi “smarcare” dal sistema che li tiene assoggettati avrebbero bisogno di istituzioni indipendenti, stabili e democratiche che appaiono, in larga parte, ancora incompiute.

A ciò si aggiunga che decine di leader africani, da Silvanus Olympio in Togo fino ad arrivare a Muammar Gheddafi in Libia, hanno tentato negli ultimi decenni di sostituire tali strumenti di controllo monetario e finanziario con una nuova moneta comune africana. Quasi ognuno di essi – con la possibile eccezione del presidente maliano Modibo Keïta (1915–77) – è stato ucciso o “rovesciato” nel momento stesso in cui i loro rispettivi tentativi sembravano vicini al successo.

Interessi strutturali

Per molti secoli l’Europa ha contribuito alle migrazioni intercontinentali più di qualsiasi altra area del mondo. Al contempo, i migranti provenienti da altri continenti hanno raramente scelto l’Europa come propria destinazione.

Molto è cambiato nel corso del Novecento, eppure, ancora negli anni Novanta, i migranti provenienti dall’Africa occidentale, da dove prendono il là molte delle ondate migratorie dirette verso l’Europa, rappresentavano solo lo 0,005% della crescita annuale della popolazione in Europa, che all’epoca raggiungeva lo 0,184%.

Le ondate migratorie provenienti dall’Africa dalla fine degli anni Novanta – e più nello specifico la crescita dei flussi dal Sahara al Nord Africa – sono per molti versi il risultato di una “tempesta perfetta” che non ha precedenti.

Tra gli aspetti che la contraddistinguono spiccano le sfide epocali poste dalla combinazione tra cambiamenti climatici e crescita demografica (stanno all’Onu, tra il 2015 e il 2050 oltre la metà della crescita della popolazione mondiale si verificherà in Africa).

A ciò si somma lo sfruttamento (mai così ben organizzato) dell’Africa , – principalmente per mano di singoli paesi e società europei, con la connivenza di leadership locali corrotte – e la crescente destabilizzazione di molte aree della regione (a cui anche le armi “made in Europe” stanno contribuendo).

Invece di affrontare queste sfide epocali e riconoscere che l’87% dei rifugiati del mondo è ospitato in paesi a basso e medio reddito, un ampio numero di politici europei e milioni di cittadini comuni hanno scelto la “strada più semplice”: invocano un’alleanza europea contro l'”immigrazione di massa”, o, più precisamente, nelle parole del ministro dell’Interno Matteo Salvini, “una Lega delle leghe in Europa che includa tutti i movimenti liberi e sovrani che vogliano difendere le proprie frontiere e il benessere dei propri figli”.

L'”Europa”, in realtà, non si difende, bensì “attacca”. Lo fa in modo più sofisticato rispetto al passato, a fronte di alcuni limitati “effetti collaterali”. In questo senso, i timori legati ai flussi migratori non possono che risultare salutari. Tanto i governi europei quanto i cittadini che li popolano saranno infatti costretti a riconsiderare il loro modo di rapportarsi a queste tematiche.

La retorica legata alla minaccia dei “migranti” – così come l’eccessiva enfasi sul ruolo delle Ong, o sul costo “finanziario” della “crisi migratoria” per i paesi europei – rappresenta poco più che una scorciatoia che parla agli istinti di milioni di cittadini disillusi. Sfidare e affrontare gli interessi strutturali connessi a imprenditori, aziende e governi europei (e non solo) risulterebbe ben più complesso e rischioso.

Minare il “sistema” dall’interno

West Africa leaks” è il nome di un’indagine senza precedenti basata su 27 milioni di documenti. Pubblicata dall’International consortium of investigative journalists (ICIJ) lo scorso 22 maggio, essa rappresenta la prima dettagliata analisi delle modalità attraverso cui una pletora di funzionari governativi, uomini d’affari e mercanti di armi hanno sottratto, tramite conti off-shore detenuti in molteplici paradisi fiscali, centinaia di milioni di euro da alcuni dei paesi più poveri dell’Africa occidentale. Si tratta di conti in larga misura ricollegabili a società e uomini d’affari europei e statunitensi.

Il risultato dell’indagine, che rappresenta la più ampia collaborazione di giornalisti dell’Africa occidentale fino a oggi realizzata, è particolarmente significativo se si considera che proprio dell’Africa occidentale viene prelevato oltre un terzo dei circa 50 miliardi di dollari che, con modalità illecite, “evaporano” ogni anno dall’Africa.

I giornalisti africani hanno ancora molta strada da fare per comprendere fino in fondo il ruolo svolto in questi processi da alcuni dei più potenti dirigenti d’affari e politici africani. Ciononostante, il caso OPL 245 in Nigeria, dove risiede un quinto del totale della popolazione del continente, rappresenta un fedele specchio di come funziona il sistema, nonché una conferma di come esso possa e debba essere smantellato.

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