Quello che pubblico di seguito è stato scritto da Leopardi nel 1824, duecento anni fa, anche se è stato pubblicato per la prima volta nel 1906.
Nel rileggerlo, stavo evidenziando le parti che ritenevo salienti ma, mi sono reso conto di due cose:
- dovevo evidenziare tutto
- sembra scritto ieri
Per cui, l’ho riportato evidenziando solo alcune parti tanto odiose quanto reali ancora oggi.
Buona lettura.
“In questo secolo presente, sia per l’incremento dello scambievole commercio e dell’uso de’ viaggi, sia per quello della letteratura, e per l’enciclopedico che ora è d’uso, sicchè ciascuna nazione vuol conoscere più a fondo che può le lingue, letterature e costumi degli altri popoli, sia per la scambievole comunione di sventure che è stata fra’ popoli civili, sia perché la Francia abbassata dalle sue perdite, e l’altre nazioni parte per le vittorie, parte per l’aumento della coltura e letteratura di ciascheduna sollevandosi, si è introdotta fra le nazioni d’Europa, una specie d’uguaglianza di riputazione sì letteraria e civile che militare, laddove per lo passato da’ tempi di Luigi XIV, cioè dall’epoca della diffusa e stabilita civiltà europea, tutte le nazioni avevano spontaneamente ceduto di onore alla Francia che tutte le dispregiava; per qualcuna o per tutte queste cagioni le nazioni civili d’Europa, cioè principalmente la Germania, l’Inghilterra e la Francia stessa hanno deposto (forse anche pel progresso dei lumi e dello spirito filosofico e ragionatore che accresce i lumi e calma le passioni ed introduce uno abito di moderazione; e altresì per l’affievolimento stesso dell’amore e fervor nazionale, e generalmente di tutte le passioni degli uomini hanno, dico, deposto gran parte degli antichi pregiudizi nazionali sfavorevoli ai forestieri, dell’animosità, dell’avversione verso loro, e soprattutto del disprezzo verso i medesimi e verso le loro letterature, civiltà e costumi, quantunque si voglia differenti dai propri.
E cresciuto il gusto di conoscerli insieme colla stima de’ medesimi e colla equità del giudicarli, infiniti sono i volumi pubblicati in ciascuna nazione, per informarla delle cose dell’altre. Fra’ quali sono anche infiniti quelli pubblicati dagli stranieri e che si pubblicano tutto giorno sopra le cose d’Italia fatta oggetto di curiosità universale e di viaggi, molto più che ella non fu in altro tempo, e molto più generalmente, e più ancora che alcun altro paese particolare. Nei quali libri però gli scrittori incorrono senza loro colpa e per natura del soggetto in due inconvenienti, l’uno che spesso errano, essendo impossibile a uno straniero il conoscere perfettamente un’altra nazione, massime dopo non lunga dimora, l’altro che dicendo o il falso, o anche il vero, che sia alcun poco sfavorevole a quelli di cui parlano, benchè il dicano senz’animosità veruna (non essendo più mezzo di farsi grato alla propria nazione il dir male dell’altre, ed odiandosi in tali libri l’animosità, sempre che si scuopre) si concitano l’odio della nazione di cui scrivono. Il qual secondo male è più grave che mai ne’ libri che trattano degli italiani, delicatissimi sopra tutti gli altri sul conto loro: cosa veramente strana, considerando il poco o niuno amor nazionale che vive tra noi, e certo minore che non è negli altri paesi. Cagione di ciò è sicuramente in gran parte che gl’italiani misurando gli altri da se medesimi (i quali camminando sempre addietro degli altri, non sono ancora così lontani da’ pregiudizi e dall’animosità verso gli stranieri, e certo li conoscono e studiano di conoscerli cento volte meno che essi non fanno verso loro) attribuiscono sempre ad odio e malvolenza e invidia ogni parola men che vantaggiosa che sia profferita o scritta da un estero in riguardo loro. Certo è nondimeno che in questi ultimi anni si sono divulgate in Europa dalla Corinna in poi più opere favorevoli all’Italia, che non sono tutte insieme quelle pubblicate negli altri tempi, e nelle quali si dice di noi più bene che mai non fu detto appena da noi medesimi.
Alcune sono veri elogi nostri, scritti i più con entusiasmo di affezione e, in parte, di ammirazione verso le cose nostre. E generalmente parlando si vede nel mondo civile una inclinazione verso noi maggiore assai che fosse in altro tempo e che sia verso alcun altro paese, ed una opinione vantaggiosa di noi, la quale ardisco dire che supera di non poco il nostro merito, ed è in molte cose contraria alla verità. E ben si può dire che oggi, al contrario che nel passato, gli stranieri quando s’ingannano sul nostro conto, più tosto s’ingannano a favor nostro che in disfavore. Contuttociò e la Corinna e tutte le altre siffatte opere sono guardate dagl’italiani con gelosia, e molte cose vere ed utili hanno dette e scritte gli stranieri sui nostri costumi che per questa e per altre cause non ci sono di veruna utilità. Gl’italiani stessi non scrivono nè pensano sui loro costumi, come sopra niun’altra cosa che importi e giovi ad essi o agli altri: eccetto forse il solo Baretti, spirito in gran parte altrettanto falso che originale, e stemperato nel dir male, e poco intento e certo poco atto a giovare, e sì per la singolarità del suo modo di pensare e vedere, benchè questa niente affettata, sì per la sua decisa inclinazione a sparlare di tutto, e il suo carattere aspro e iracondo verso tutto, il più delle volte alieno dal tutto. Oltre i costumi e lo stato d’Italia sono incredibilmente cangiati dal suo tempo, cioè da prima della rivoluzione, al tempo presente. Allora, massime l’Italia meridionale, era quasi in quello stato di opinioni e di costumi in cui si è trovata fino agli ultimi anni ed ancora in grandissima parte si trova la Spagna. Ora per l’uso e il dominio degli stranieri, massime de’ francesi, l’Italia è, quanto alle opinioni, a livello cogli altri popoli, eccetto una maggior confusione nelle idee, ed una minor diffusione di cognizioni nelle classi popolari. Queste opinioni però operano sullo stato e sulla vita degl’italiani in maniera diversa che presso gli altri, per la diversità somma delle sue circostanze, e quindi ne risulta che con opinioni appresso a poco, e massime in buona parte della nazione, conformi, essa è di costumi notabilmente diversa dagli altri popoli civili. Se io dirò alcune cose circa questi presenti costumi (tenendomi al generale) colla sincerità e libertà con cui ne potrebbe scrivere uno straniero, non dovrò esserne ripreso dagli italiani,, perché non lo potranno imputare a odio o emulazione nazionale, e forse si stimerà che le cose nostre sieno più note a un italiano che non sono e non sarebbero a uno straniero, e finalmente se questi non dee risparmiare il nostro amor proprio con danno della verità, perché dovrò io parlare in cerimonia alla mia propria nazione, cioè quasi alla mia famiglia e a’ miei fratelli?
Non è da dissimulare che considerando le opinioni e lo stato presente dei popoli, la quasi universale estinzione o indebolimento delle credenze su cui si possano fondare i principii morali, e di tutte quelle opinioni fuor delle quali è impossibile che il giusto e l’onesto paia ragionevole, e l’esercizio della virtù degno d’un savio, e da altra parte l’inutilità della virtù e la utilità decisa del vizio dipendenti dalla politica costituzionale delle presenti repubbliche; la conservazione della società sembra opera piuttosto del caso che d’altra cagione, e riesce veramente maraviglioso che ella possa aver luogo tra individui che continuamente si odiano s’insidiano e cercano in tutti i modi di muoversi gli uni agli altri. Il vincolo e il freno delle leggi e della forza pubblica, che sembra ora essere l’unico che rimanga alla società, è cosa da gran tempo riconosciuta per insufficientissima a ritenere dal male e molto più a stimolare al bene. Tutti sanno con Orazio, che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni. In questa universale dissoluzione dei principii sociali, in questo caos che veramente spaventa il cuor di un filosofo, e lo pone in gran forse circa il futuro destino delle società civili e in grande incertezza del come elle possano durare a sussistere in avvenire, le altre nazioni civili, cioè principalmente la Francia, l’Inghilterra e la Germania, hanno un principio conservatore della morale e quindi della società, che benché paia minimo, e quasi vile rispetto ai grandi principii morali e d’illusione che si sono perduti, pure è d’un grandissimo effetto.
Questo principio è la società stessa. Le dette nazioni, oltre la società generalmente presa, cioè il convitto degli uomini per provvedere scambievolmente ai propri bisogni, e difendersi dai comuni danni e pericoli, hanno quel genere più particolare di società che suole essere chiamato con questo medesimo nome ridotto a significazione più stretta, e consiste in un commercio più intimo degl’individui fra loro, e massime di quelli, che dispensati dalla loro condizione dal provvedere coll’opera meccanica delle proprie mani alla loro e all’altrui sussistenza e forniti del necessario alla vita col mezzo delle fatiche altrui, mancando de’ bisogni primi, vengono naturalmente nel secondo bisogno, cioè di trovare qualche altra occupazione che riempia la loro vita, e alleggerisca loro il peso dell’esistenza, sempre grave e intollerabile quando è disoccupata. Questa tal società che è principalmente fra questi tali uomini, ha per fine il diletto e il riempire il vuoto della vita cagionato dalla mancanza de’ bisogni primi, e per causa ha i detti bisogni secondi, come quell’altro più largo e più comun genere di società ha per origine i primi bisogni e la naturale necessità. Per mezzo di quella società più stretta, le città e le nazioni intiere, e in questi ultimi tempi massimamente, l’aggregato eziandio di più nazioni civili, divengono quasi una famiglia, riunita insieme per trovare nelle relazioni più strette e più frequenti che nascono da tale quasi domestica unione, una occupazione, un pascolo, un trattenimento alla vita di quelli, che senza ciò menerebbero il tempo affatto vuoto, e tali sono, rigorosamente parlando, tutti gli uomini, salvo gli agricoltori e quelli che ci procurano il vestito di prima necessità. Coll’uso scambievole gli uomini naturalmente e immancabilmente prendono stima gli uni degli altri: cioè non già buona opinione, anzi questa è tanto minore in ciascuno verso gli altri generalmente, quanto il detto uso e quindi la cognizione degli uomini è maggiore; ma la stretta società fa che ciascuno fa conto degli uomini e desidera di farsene stimare (questa è propriamente la stima che si concepisce di loro) e li considera per necessarii alla propria felicità, sì quanto ad altri rispetti, sì quanto a questa soddisfazione del suo amor proprio che ciascuno in particolare attende desidera e cerca da essi, da’ quali dipende, e non si può ricever d’altronde. Questo desiderio è quello che si chiama ambizione, vincolo e sostegno potentissimo della società che non d’altronde nasce che da essa società ridotta a forma stretta, poiché fuor di essa l’ambizione non ha luogo alcuno nell’uomo, e l’amor proprio naturale non prenderebbe mai questo aspetto, che pur sembra totalmente suo proprio ed essenziale e sommamente immediato. L’ambizione può aver varie forme e vari fini.
Una volta ella era desiderio di gloria, passione che fu comunissima. Ma ora questa è cosa troppo grande, troppo nobile, troppo forte e viva perch’ella possa aver luogo nella piccolezza delle idee e delle passioni moderne, ristrette e ridotte in angustissimi termini e in bassissimo grado dalla ragione geometrica e dallo stato politico della società; perch’ella possa compatire collo stato di freddezza e mortificazione che risulta universalmente nella vita civile dalle dette cause; e la gloria è un’illusione troppo splendida e un nome troppo alto perché possa durare dopo la strage delle illusioni, e la conoscenza della verità e realtà delle cose, e del loro peso e valore. L’amore della gloria è incompatibile colla natura de’ tempi presenti, è cosa obsoleta come le usanze e le voci antiquate, non sussiste più, o è così raro, e dove anche sussiste è così debole e inefficace che non può esser principio di grandi beni alla società e molto meno servirle di vincolo, quale egli era in gran parte una volta. A’ nostri tempi, presso quelle nazioni che hanno l’uso di quella società intima definita di sopra, l’ambizione produce un altro sentimento tutto moderno, e di natura sua, siccome di fatto e di nascita posteriore alle grandi illusioni dell’antichità. Questo sentimento è quello che si chiama onore. È un’illusione esso stesso, perché consiste nella stima che gl’individui fanno della opinione altrui verso loro, opinione che rigorosamente parlando, è cosa di niun conto; ma egli è un’illusione tanto poco alta e viva e luminosa, che facilmente nasconde anche agli occhi esercitati dalla cognizione del vero, la sua vanità, e può compatire collo stato presente e colla distruzione di quasi tutte l’altre illusioni, alla quale ella non ripugna se non mediocremente, atteso la sua natura, per così dire, fredda e rimessa. Questa illusione però è potentissima nelle nazioni e nelle classi che hanno l’uso di quella intima società da cui solo ella può nascere. E particolarmente in Francia, molti sono stati filosofi di opinione fino all’ultimo grado, e conoscitori intimi del vero in tutta la sua estensione, e il danno eziandio non piccolo in varie cose. Ma nel fatto e nella vita è certissimo che nessuno di questi, non che degli altri francesi, dal tempo della origine della società francese fino al presente, ha mai potuto impetrar da se stesso, non solo di non curar veramente l’opinione pubblica, ma neppure di non metterla quanto all’effetto e quanto al fondo del suo animo, nellaù cima de’ suoi pensieri e de’ suoi fini, e di non volgere a quella il più delle sue azioni e delle sue omissioni. Questa stima della opinione pubblica, così piccola cosa come ella è, è pur da tanto che quasi basta nelle dette nazioni (ciascuna delle quali ne partecipa a proporzione delle sue circostanze sociali) a rimpiazzare i principii morali ugualmente perduti appresso di loro, massime nelle classi non laboriose, e gli altri vincoli della società, gli altri freni del male e stimoli del bene, in luogo de’ quali resta si può dire esso solo, ed è pur sufficiente a servire alla società di legame. Piccolissima e freddissima cosa ella è, come ho detto, non v’ha dubbio. Gli uomini politi di quelle nazioni si vergognano di fare il male come di comparire in una conversazione con una macchia sul vestito o con un panno logoro o lacero; si muovono a fare il bene per la stessa causa e con niente maggiore impulso e sentimento che a studiar esattamente ed eseguir le mode, a cercar di brillare cogli abbigliamenti, cogli equipaggi, coi mobili, cogli apparati: il lusso e la virtù o la giustizia hanno tra loro lo stesso principio, non solo rimotamente parlando, il che è da per tutto e fu quasi sempre, ma parlando immediatamente e particolarmente. Qual cosa è più frivola in sé cheù il far conto di una buona azione né più né manco che di un buon motto o di un bell’abito, esser sollecito della propria probità per la sola ragione per cui si ha cura di acquistare e conservare la bella maniera, evitare una mala azione come una brutta riverenza, e il vizio come il cattivo tuono? Ma bisogna pur confessare (che giova il parlar sempre dissimulatamente, e col linguaggio antico nelle cose affatto nuove?) che effettivamente lo stato delle opinioni e delle nazioni quanto alla morale è ridotto in questa precisa miseria che il buon tuono è, non solo il più forte, ma l’unico fondamento che resti a’ buoni costumi, e che i buoni costumi non sono esercitati per altro, generalmente parlando e delle classi civili, che per le ragioni per cui si esercita il buon tuono, e che dove il buon tuono della società non v’è o non si cura, quivi la morale manca d’ogni fondamento e la società d’ogni vincolo, fuor della forza, la quale non potrà mai né produrre i buoni costumi né bandire o tener lontani i cattivi. Così nelle dette nazioni la società stessa producendo il buon tuono produce la maggiore anzi unica garanzia de’ costumi sì pubblici che privati che si possa ora avere, e quindi è causa immediata della conservazione di sé medesima.
Gl’italiani dal tempo della rivoluzione in poi, sono, quanto alla morale, così filosofi, cioè ragionevoli e geometri, quanto i francesi e quanto qualunque altra nazione, anzi il popolo, il che è degno di osservarsi, lo è forse più che non è quello d’altra nazione alcuna. Voglio dire che quanto alla cognizione del nudo vero circa i principii morali, quanto alle credenze che a questi appartengono, quanto all’abbandono delle credenze antiche, la nazione italiana presa insieme e paragonando classe a classe conforme e corrispondente tra lei e l’altre nazioni, è appresso a poco a livello con qualunque altra più civile e più istruita d’Europa o d’America. Per conseguenza da questa parte ella è priva come l’altre d’ogni fondamento di morale, e d’ogni vero vincolo e principio conservatore della società. Ma oltre di questo, a differenza delle dette nazioni, ella è priva ancora di quel genere di stretta società definito di sopra. Molte ragioni concorrono a privarnela, che ora non voglio cercare. Il clima che gl’inclina a vivere gran parte del dì allo scoperto, e quindi a’ passeggi e cose tali, la vivacità del carattere italiano che fa loro preferire i piaceri degli spettacoli e gli altri diletti de’ sensi a quelli più particolarmente propri dello spirito, e che gli spinge all’assoluto divertimento scompagnato da ogni fatica dell’animo e alla negligenza e pigrizia; queste cose non sono che le menome e le più facili a vincere tra le ragioni che producono il sopraddetto effetto. Certo è che il passeggio, gli spettacoli, e le Chiese sono le principali occasioni di società che hanno gl’italiani, e in essi consiste, si può dir, tutta la loro società (parlando indipendentemente da quella che spetta ai bisogni di prima necessità), perché gl’italiani non amano la vita domestica, né gustano la conversazione o certo non l’hanno. Essi dunque passeggiano, vanno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane. Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia.
Conseguenza necessaria di questo è che gl’italiani non temono e non curano per conto alcuno di essere o parer diversi l’uno dall’altro, e ciascuno dal pubblico, in nessuna cosa e in nessun senso. Lascio stare che la nazione non avendo centro, non havvi veramente un pubblico italiano; lascio stare la mancanza di teatro nazionale, e quella della letteratura veramente nazionale moderna, la quale presso l’altre nazioni, massime in questi ultimi tempi è un grandissimo mezzo e fonte di conformità di opinioni, gusti, costumi, maniere, caratteri individuali, non solo dentro i limiti della nazione stessa, ma tra più nazioni eziandio rispettivamente. Queste seconde mancanze sono conseguenze necessarie di quella prima, cioè della mancanza di un centro, e di altre molte cagioni. Ma lasciando tutte queste e quelle, e restringendoci alla sola mancanza di società, questa opera naturalmente che in Italia non havvi una maniera, un tuono italiano determinato. Quindi non havvi assolutamente buon tuono, o egli è cosa così vaga, larga e indefinita che lascia quasi interamente in arbitrio di ciascuno il suo modo di procedere in ogni cosa. Ciascuna città italiana non solo, ma ciascuno italiano fa tuono e maniera da sé.
Non avendovi buon tuono, non possono avervi convenienza di società (bienséances). Mancando queste, e mancando la società stessa, non può avervi gran cura del proprio onore, o l’idea dell’onore e delle particolarità che l’offendono o lo mantengono e vi si conformano, è vaga e niente stringente. Ciascuno italiano è presso a poco ugualmente onorato e disonorato. Voglio dir che non è né l’uno né l’altro, perché non v’ha onore dove non v’ha società stretta, essendo esso totalmente una idea prodotta da questa, e che in questa e per questa sola può sussistere ed essere determinata.
Benché gl’italiani, come ho detto, sieno incirca a livello delle altre nazioni nella conoscenza generale della realtà delle cose relativamente ai fondamenti dei principii morali, per quanto almen basta a influire e dar norma alla condotta pubblica e privata di ciascheduno; tuttavia è ben certo e da tutti gli stranieri, non meno che da noi, conosciuto e consentito che l’Italia in fatto di scienza filosofica e di cognizione matura e profonda dell’uomo e del mondo è incomparabilmente inferiore alla Francia, all’Inghilterra, alla Germania considerando queste e quella generalmente. Ma contuttociò è anche certissimo, benché parrà un paradosso, che se le dette nazioni son più filosofe degl’italiani nell’intelletto, gl’italiani nella pratica sono mille volte più filosofi del maggior filosofo che si trovi in qualunque delle dette nazioni.
Primieramente dell’opinione pubblica gl’italiani in generale, e parlando massimamente a proporzione degli altri popoli, non ne fanno alcun conto. Corrono e si ripetono tutto giorno cento proverbi in Italia che affermano che non s’ha da por mente a quello che il mondo dice o dirà di te, che s’ha da procedere a modo suo non curandosi del giudizio degli altri, e cose tali. Lungi che gl’italiani considerino, come i francesi, per la massima delle sventure la perdita o l’alterazione dell’opinion pubblica verso loro, e sieno pronti, come i francesi ben educati, a soffrire e sacrificar qualunque cosa piuttosto che incorrere anche a torto in questo inconveniente; essi non si consolano di cosa alcuna più di leggieri che della perdita eziandio totale (giusta o ingiusta che sia) dell’opinione pubblica, e stimano ben dappoco chi pospone a questo fantasma i suoi interessi e i suoi vantaggi reali (o quelli che così si chiamano nel linguaggio della vita), e chi non si cura d’incorrere per amor di quello in danni o privazioni vere, d’astenersi da piaceri, ancorché minimi, e cose tali. Insomma niuna cosa, ancorché menomissima, è disposto un italiano di mondo a sacrificare all’opinion pubblica, e questi italiani di mondo che così pensano ed operano, sono la più gran parte, anzi tutti quelli che partecipano di quella poca vita che in Italia si trova. Non si può negare che filosoficamente e geometricamente parlando, essi non abbiano assai più ragione dei francesi e degli altri che pensano e operano diversamente, e che per conseguenza in questa parte essi non sieno, quanto alla pratica, assai più filosofi. Al che li porta lo stato delle cose loro, nel quale in realtà l’opinione pubblica, per la mancanza di società stretta, pochissimo giova favorevole e pochissimo nuoce contraria, e la gente per quanta ragione abbia di dir male o bene di uno, di pensarne bene o male, prestissimo si stanca dell’uno e dell’altro; si dimentica affatto delle ragioni che aveva di far questo o quello, benché certissime e grandissime, e torna a parlare e pensare di quella tal persona con perfetta indifferenza, e come d’una dell’altre.
Secondariamente, e questa è cosa molto osservabile, come l’opinion pubblica, così la vita non ha in Italia non solo sostanza e verità alcuna, che questa non l’ha neppure altrove, ma né anche apparenza, per cui ella possa essere considerata come importante. Lascio la totale mancanza d’industria, e d’ogni sorta di attività, e quella di carriere politiche e militari, quella d’ogni altro istituto di vita e di professione per cui l’uomo miri a uno scopo, e coll’aspettativa, coi disegni, colle speranza dell’avvenire, rilevi il pregio dell’esistenza, la quale sempre che manca di prospettiva d’un futuro migliore, sempre ch’è ristretta al solo presente, non può non parer cosa vilissima e di niun momento, perché nel presente, cioè in quello che è sottoposto agli occhi, non hanno luogo le illusioni, fuor delle quali non esiste l’importanza della vita. Or la vita degl’italiani è appunto tale, senza prospettiva di miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente. Ma lasciando questo e restringendoci alla sola mancanza di società, certo è che uno de’ grandissimi e principali mezzi che restano oggi agli uomini per non avvedersi affatto della nullità delle cose loro, o per non sentirla, benché conoscendola, per non essere nella pratica persuasi della total frivolezza delle loro occupazioni qualunque e della totale indegnità della vita ad esser con fatiche e con sollecitudini coltivata, studiata ed esercitata, uno, dico, de’ principali mezzi e forse il principale assolutamente, è la società. L’uomo è animale imitativo e d’esempio. Questa è cosa provata. Tale egli è sempre, anche dopo emancipato (se egli arriva mai ad esserlo) dal giogo delle credenze e del modo di pensare e di vedere altrui; anche filosofo: egli lo è men degli altri, ma pure in gran parte. Questa sua imitazione è volta principalmente a’ suoi simili, questo esempio ch’ei ne prende, da loro principalmente lo piglia. Una parte maggiore o minore, ma sempre una qualche parte, non solo della sua condotta, non solo del suo carattere, de’ suoi costumi, non solo del suo animo generalmente, ma del suo stesso intelletto, e del suo modo di pensare, dipende, imita, si regola, è modificata dall’esempio altrui, cioè precisamente e massimamente di quella parte de’ suoi simili colla quale ei convive, sia che ei conviva per mezzo della lettura, sia specialmente colla persona, sia come si voglia. Or dunque nella società stretta l’essere continuamente testimonio delle cure che gli altri si danno (perciocché essa le richiede, e ne impone una necessità, non paragonabile alle naturali, ma pur molto imperiosa ed efficace), del peso che essi annettono, o che nell’estrinseco necessariamente e per legge molto naturale di essa società, mostrano continuamente e totalmente di annettere alle bagattelle della società medesima e di tutta la vita, fa che ciascuno dal canto suo, non possa a meno, quanto alla pratica ed anche a una certa parte del suo intelletto, di non fare una tal quale stima della vita e delle cose umane, e di contarle per qualche che.
La perpetua e piena dissimulazione della vanità delle cose, dissimulazione che tutti fanno verso ciascuno nelle parole e nei fatti in una società stretta, e che ciascuno è obbligato nello stesso modo a fare continuamente con tutti gli altri, inganna in qualche guisa il pensiero, e mantiene come che sia e per quanto è possibile l’illusione dell’esistenza. In una società stretta anche l’uomo più intimamente persuaso per raziocinio, ed anche per sentimento, della vanità di se stesso, della frivolezza altrui, della inutilità della vita e delle fatiche, della niuna importanza d’essa società, anche il più perfetto filosofo in ispeculazione, non può mai fare, non solo di non contenersi in atto come se il mondo valesse pur qualche cosa, ma nemmeno che una parte del suo intelletto non combatta coll’altra, affermando che le cose umane meritano pur qualche cura, e combattendo non vinca il più del tempo, e non persuada confusamente alla persona la detta cosa in dispetto, per dir così, della sua stessa persuasione. Se non altro l’immaginativa che per natura ci porta a conceder qualche valore alla vita, ha pure un pascolo nella società stretta, e facoltà di conservar qualche parte della sua azione ed influenza sull’uomo. Tutto ciò non ha luogo nella solitudine, ma meno ancora in una dissipazione giornaliera e continua senza società. Nella solitudine anche dell’uomo il più sapiente esperimentato e disingannato, la lontananza degli oggetti giova infinitamente a ingrandirli, apre il campo all’immaginazione per l’assenza del vero e della realtà e della pratica, risveglia e risuscita sovente le illusioni in luogo di sopirle o finir di distruggerle, l’animo dell’uomo torna a creare e a formarsi il mondo a suo modo; e finalmente la mancanza di occupazioni o distrazioni vive, e il continuo e non diviso né divagato pensiero che necessariamente si pone nelle cose presenti, e l’attenzione totale dell’animo che nasce dalla mancanza di sensazioni che la trasportino qua e là, fanno che all’ultimo si dà peso a menomissimi oggetti, e molto più che non si dava e che gli altri non danno nel mondo a oggetti molto maggiori (o così detti), e vi si pone tanta cura che finalmente essi riempiono tutto il tempo, ed occupano la vita, e alcune volte eziandio d’avanzo. L’esperienza lo prova a quelli che hanno potuto farla in se o in altri. Ma la detta dissipazione continua, senza società, quella che forma la vita degl’italiani non bisognosi, è priva degli aiuti della lontananza, priva delle risorse interne dell’immaginazione e dell’animo, per esser dissipazione e per aver sempre la realtà sotto gli occhi; e priva da altra parte de’ soccorsi esterni della immaginazione, e di cose al di fuori che mantengano o rialzino le illusioni, perché come trovarle fuor della società? Per queste cagioni gl’italiani di mondo, privi come sono di società, sentono più o meno ciascuno, ma tutti generalmente parlando, più degli stranieri, la vanità reale delle cose umane e della vita, e ne sono pienamente, più efficacemente e più praticamente persuasi, benché per ragione la conoscano, in generale, molto meno. Ed ecco che gl’italiani sono dunque nella pratica, e in parte eziandio nell’intelletto, molto più filosofi di qualunque filosofo straniero, poiché essi sono tanto più addomesticati, e per dir così convivono e sono immedesimati con quella opinione e cognizione che è la somma di tutta la filosofia, cioè la cognizione della vanità d’ogni cosa, e secondo questa cognizione, che in essi è piuttosto opinione o sentimento, sono al tutto e praticamente disposti assai più dell’altre nazioni.
Or da ciò nasce ai costumi il maggior danno che mai si possa pensare. Come la disperazione, così né più né meno il disprezzo e l’intimo sentimento della vanità della vita sono i maggiori nemici del bene operare, e autori del male e della immoralità. Nasce da quelle disposizioni la indifferenza profonda, radicata ed efficacissima verso se stessi e verso gli altri, che è la maggior peste de’ costumi, de’ caratteri, e della morale. Non si può negare; la disposizione più ragionevole e più naturale che possa contrarre un uomo disingannato e ben istruito della realtà delle cose e degli uomini, senza però esser disperato né inclinato alle risoluzioni feroci, ma quieto e pacifico nel suo disinganno e nella sua cognizione, come son la più parte degli uomini ridotti in queste due ultime condizioni; la disposizione, dico, la più ragionevole e quella d’un pieno e continuo cinismo d’animo, di pensiero, di carattere, di costumi, d’opinione, di parole e d’azioni. Conosciuta ben a fondo e continuamente sentendo la vanità e la miseria della vita e la mala natura degli uomini, non volendo o non sapendo o non avendo coraggio, o anche col coraggio, non avendo forza di disperarsene, e di venire agli estremi contro la necessità e contro se stesso, e contro gli altri che sarebbero sempre ugualmente incorreggibili; volendo o dovendo pur vivere e rassegnarsi e cedere alla natura delle cose; – continuare in una vita che si disprezza, convivere e conversar con uomini che si conoscono per tristi e da nulla – il più savio partito è quello di ridere indistintamente e abitualmente d’ogni cosa e d’ognuno, incominciando da se medesimo. – Questo è certamente il più naturale e il più ragionevole. Or gl’italiani generalmente parlando, e con quella diversità di proporzioni che bisogna presupporre nelle diverse classi e individui, trattandosi di una nazione intiera, si sono onninamente appigliati a questo partito. Gl’italiani ridono della vita: ne ridono assai più, e con più verità e persuasione intima di disprezzo e freddezza che non fa niun’altra nazione. Questo è ben naturale, perché la vita per loro val meno assai che per gli altri, e perché egli è certo che i caratteri più vivaci e caldi di natura, come è quello degl’Italiani, diventano i più freddi e apatici quando sono combattuti da circostanze superiori alle loro forze. Così negl’individui, così è nelle nazioni. Le classi superiori d’Italia sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni.
Il popolaccio italiano è il più cinico di tutti i popolacci.
Quelli che credono superiore a tutte per cinismo la nazione francese, s’ingannano. Niuna vince né uguaglia in ciò l’italiana. Essa unisce la vivacità naturale (maggiore assai di quella de’ francesi) all’indifferenza acquisita verso ogni cosa e al poco riguardo verso gli altri cagionato dalla mancanza di società, che non li fa curar gran fatto della stima e de’ riguardi altrui: laddove la società francese influisce tanto, com’è noto, anche nel popolo, ch’esso è pieno di riguardi sì verso i propri individui, sì verso l’altre classi, quanto comporta la sua natura.
Se gli stranieri non conoscono bene il modo di trattare degl’italiani, massime tra loro, questo viene appunto dalla mancanza di società in Italia, onde è difficile a un estero il farsi una precisa idea delle nostre maniere sociali ordinarie, mancandogli l’occasione d’esserne facilmente e sovente testimonio, perocchè d’altronde non siamo soliti a risparmiare i forestieri. Ma nel nostro proprio commercio, per le dette ragioni, il cinismo è tale che supera di gran lunga quello di tutti gli altri popoli, parlando proporzionatamente di ciascuna classe. Per tutto si ride, e questa è la principale occupazione delle conversazioni, ma gli altri popoli altrettanto e più filosofi di noi, ma con più vita, e d’altronde con più società, ridono piuttosto delle cose che degli uomini, piuttosto degli assenti che dei presenti, perché una società stretta non può durare tra uomini continuamente occupati a deridersi in faccia gli uni e gli altri, e darsi continui segni di scambievole disprezzo. In Italia il più del riso è sopra gli uomini e i presenti. La raillerie il persifflage, cose sì poco proprie della buona conversazione altrove, occupano e formano tutto quel poco di vera conversazione che v’ha in Italia.
Quest’è l’unico modo, l’unica arte di conversare che vi si conosca. Chi si distingue in essa è fra noi l’uomo di più mondo, e considerato per superiore agli altri nelle maniere e nella conversazione, quando altrove sarebbe considerato per il più insopportabile e il più alieno dal modo di conversare.
Gl’Italiani posseggono l’arte di perseguitarsi scambievolmente e di se pousser à bout colle parole, più che alcun’altra nazione. Il persifflage degli altri è certamente molto più fino, il nostro ha spesso e per lo più del grossolano, ed è una specie di polissonnerie, ma con tutto questo io compiangerei quello straniero che venisse a competenza e battaglia con un italiano in genere di raillerie.
I colpi di questo, benché poco artificiosi, sono sicurissimi di sconcertare senza rimedio chiunque non è esercitato e avvezzo al nostro modo di combattere, e non sa combattere alla stessa guisa. Così un uomo perito della scherma è sovente sconcertato da un imperito, o uno schermitore riposato da un furioso e in istato di trasporto. Gl’Italiani non bisognosi passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue. Come altrove è il maggior pregio il rispettar gli altri, il risparmiare il loro amor proprio, senza di che non vi può aver società, il lusingarlo senza bassezza, il procurar che gli altri sieno contenti di voi, così
In Italia la principale e la più necessaria dote di chi vuole conversare, è il mostrar colle parole e coi modi ogni sorta di disprezzo verso altrui, l’offendere quanto più si possa il loro amor proprio, il lasciarli più che sia possibile mal soddisfatti di se stessi e per conseguenza di voi.
Sono incalcolabili i danni che nascono ai costumi da questo abito di cinismo, benché per verità il più conveniente a uno spirito al tutto disingannato e intimamente e praticamente filosofo, e da tutte le sovraespresse condizioni e maniere del nostro modo di trattarci scambievolmente.
Non rispettando gli altri, non si può essere rispettato.
Gli stranieri e gli uomini di buona società non rispettano altrui se non per essere ripettati e risparmiati essi stessi, e lo conseguono. Ma in Italia non si conseguirebbe, perché dove tutti sono armati e combattono contro ciascuno, è necessario che ciascuno presto o tardi si risolva e impari d’armarsi e combattere, altrimenti è oppresso dagli altri, essendo inerme e non difendendosi, in vece d’essere risparmiato. È anche necessario ch’egli impari ad offendere. Tutto ciò non si può conseguire prima che uno contragga un abito di disistima e disprezzo e indifferenza somma verso se stesso, perché non v’è cosa più nociva in questo modo di conversare che l’esser dilicato e sensibile sul proprio conto. Oltre che allora tutti i ridicoli piombano su di voi, si è sempre timido e incapace di offendere per paura di non soffrire altrettanto e provocarsi maggiormente gli altri, incapace di difendersi convenientemente perché la passione impedisce la libertà e la franchezza del pensare e dell’operare e l’aggiustatezza e disinvoltura delle difese.
E basta che uno si mostri sensibile alle punture o abitualmente o attualmente perché gli altri più s’infervorino a pungerlo e annichilarlo. Oltre di ciò in qualunque modo il vedersi sempre in derisione per necessità produce una disistima di se stesso e dall’altra parte un’indifferenza a lungo andare sulla propria riputazione.
La quale indifferenza chi non sa quanto noccia ai costumi? E certo che il principal fondamento della moralità di un individuo e di un popolo è la stima costante e profonda che esso fa di se stesso, la cura che ha di conservarsela (né si può conservarla vedendo che gli altri ti disprezzano), la gelosia, la delicatezza e sensibilità sul proprio onore. Un uomo senz’amor proprio, al contrario di quel che volgarmente si dice, è impossibile che sia giusto, onesto e virtuoso di carattere, d’inclinazioni, costumi e pensieri, se non d’azioni.
Di più quanto v’ha di conversazione in Italia (ch’è la più parte ne’ caffè e ridotti pubblici, piuttosto che appresso i privati, appo i quali propriamente non si conversa, ma si giuoca, o si danza, o si canta, o si suona, o si passeggia, essendo sconosciute in Italia le vere conversazioni private che s’usano altrove); quel poco, dico, che v’ha in Italia di conversazione, essendo non altro che una pura e continua guerra senza tregua, senza trattati, e senza speranza di quartiere, benché questa guerra sia di parole e di modi e sopra cose di niuna sostanza, pure è manifesto quanto ella debba disunire e alienare gli animi di ciascuno da ciascuno, sempre offesi nel loro amor proprio, e quanto per conseguenza sia pestifera ai costumi divenendo come un esercizio per una parte, e per l’altra uno sprone dell’offendere altrui e della nimicizia verso gli altri, nelle quali cose precisamente consiste il male morale e la perversità dei costumi e la malvagità morale delle azioni e de’ caratteri. Ciascuno combattuto e offeso da ciascuno dee per necessità restringere e riconcentrare ogni suo affetto ed inclinazione verso se stesso, il che si chiama appunto egoismo, ed alienarle dagli altri, e rivolgerle contro di loro, il che si chiama misantropia. L’uno e l’altra le maggiori pesti di questo secolo. Così che le conversazioni d’Italia sono un ginnasio dove colle offensioni delle parole e dei modi s’impara per una parte e si riceve stimolo dall’altra a far male a’ suoi simili co’ fatti. Nel che è riposto l’esizio e l’infelicità sociale e nazionale. E questa è la somma della pravità e corruzion de’ costumi. Ed anche all’amore e spirito nazionale è visibile quanto debbano nuocere tali modi di conversare per cui trattiamo e ci avvezziamo a trattare e considerar gli altri sì diversamente che come fratelli, ed acquistiamo o intratteniamo ed alimentiamo uno spirito ostile verso i più prossimi. Laddove presso l’altre nazioni la società e conversazione, rispettandovisi ed anche pascendovisi per parte di tutti l’amor proprio di ciascheduno, è un mezzo efficacissimo d’amore scambievole sì nazionale che generalmente sociale; in Italia per la contraria cagione la società stessa, così scarsa com’ella è, è un mezzo di odio e di disunione, accresce esercita e infiamma l’avversione e le passioni naturali degli uomini contro gli uomini, massime contro i più vicini, che più importa di amare e beneficare o risparmiare; tanto che al paragone sarebbe assai meglio che ella non vi fosse affatto, e che gli italiani non conversassero mai tra loro se non nel domestico, e per li soli bisogni, come alcune nazioni poco polite e molto bisognose, o molto occupate e industriose. Certo la società che avvi in Italia è tutta di danno ai costumi e al carattere morale, senza vantaggio alcuno.
Queste sono le conseguenze della poca società e della poca vita che avvi in Italia. Dalla poca società nasce che non v’ha buona società e che quella poca nuoce al morale. E ciò nasce ancora come s’è detto dal disprezzo della vita che naturalmente ha luogo più che negli altri in quelli che nulla vi godono, e per chi niente ella vale, sì stante le altre circostanze come atteso eziandio la mancanza di buona e non tediosissima società. La poca società e la poca vita (cioè poca azione) apparisce dalle sopraddette cose che sono naturalmente sinonimi di società e vita cattiva e scostumata e noiosa e immorale.
O tutti o gran parte degl’inconvenienti di sopra specificati hanno luogo proporzionatamente anche nelle nazioni più sociali e nelle migliori conversazioni. Da per tutto v’ha inconvenienti, da per tutto la società e l’uomo, considerato sì in se stesso e come individuo, sì come sociale, è imperfettissimo. Di più i suoi difetti e quelli della società e gl’inconvenienti di questa, presi generalmente e capo per capo all’ingrosso, sono da per tutto i medesimi, massime in questi tempi di grandissimo commercio d’ogni genere e quindi conformità fra le nazioni civili, anche le più distanti. È impossibile nominare o descrivere un difetto e un inconveniente proprio d’una nazione in generale, che non si trovi o al tutto uguale o con poca differenza e modificazione in ciascun’altra. Io non intendo dunque di attribuire all’Italia esclusivamente gl’incomodi che ho detti. Sono ben lontano dall’immaginarmi un mondo diverso e più bello del nostro né paesi remoti da’ miei occhi. In particolare poi, dovunque v’ha società, quivi l’uomo cerca sempre d’innalzarsi, in qualunque modo e con qualunque sia mezzo, colla depressione degli altri, e di far degli altri uno sgabello a se stesso (o trattisi di parole o di fatti), e l’amor proprio in nessun paese è scompagnato dall’avversione comunque sentita e dalla persecuzione comunque esercitata verso i propri simili, e massime verso quelli con cui si convive e che ci toccano più da presso o con gl’interessi o con l’uso quotidiano. E questo accade più che mai nei popoli civili, e oggi più che in qualunque altro tempo, essendo riconosciuto per caratteristico di questo secolo, e per necessaria conseguenza delle opinioni e dello stato presente dei popoli, quel genere di amor proprio che si chiama egoismo, il pessimo di tutti i generi. Ma oltre che le modificazioni dei difetti e inconvenienti umani e sociali possono essere differenti come ho detto, vi si dà anche il più e il meno, e di essi altro può esser dominante e principale in un luogo, ed altro in un altro. Quello dunque che io intendo di dire si è che gli accennati inconvenienti, per le cagioni e circostanze nostre specificate, sono maggiori qui che altrove, sono i dominanti in Italia, di peggior natura, più efficaci, più gravi, più estesi e frequenti e divulgati, più dannosi, più caratteristici e distinti nella nostra società e nella nostra vita che altrove.
Si vede dalle sopraddette cose che l’Italia è, in ordine alla morale, più sprovveduta di fondamenti che forse alcun’altra nazione europea e civile, perocché manca di quelli che ha fatti nascere ed ora conferma ogni dì più co’ suoi progressi la civiltà medesima, ed ha perduti quelli che il progresso della civiltà e dei lumi ha distrutti. Sì per l’una parte è inferiore alle nazioni più colte o certo più istruite, più sociali, più attive e più vive di lei, per l’altra alle meno colte e istruite e men sociali di lei, come dire alla Russia, alla Polonia, al Portogallo, alla Spagna, le quali conservano ancora una gran parte de’ pregiudizi de’ passati secoli, e dalla ignoranza hanno ancor qualche garanzia della morale, benché sien prive di quella che dà alla morale la società e il sentimento delicato dell’onore. Il quale stato della Spagna in particolare, fece dire allo Chateaubriand prima della sua rivoluzione, che quando gli altri popoli rotti e invecchiati dall’eccesso della civiltà e per conseguenza dalla corruzione avrebbero perduta ogni virtù, e seco ogni forza, valore ed energia, la Spagna ancor fresca, ancor vicina alla natura, si sarebbe trovata in quello stato di vigore che nasce da’ principii e da’ costumi non corrotti di una nazione serbata lontano e illesa dal commercio cogli altri popoli; e che quello sarebbe stato il tempo in cui la Spagna sarebbe tornata a risplendere, e ricomparsa superiore all’altre nazioni in Europa, come l’unica non corrotta. Nel che lo Chateaubriand, come in molte altre cose, e per conseguenza necessaria di molti suoi falsi principii, s’ingannava grandemente. Si potrà forse disputare non poco se l’antica civiltà sia da preporre o posporre alla moderna, in ordine alla felicità sì dell’uomo sì de’ popoli ed alla virtù, valore, vita, energia ed attività delle nazioni. Ma lo stato della Spagna non ha niente a fare con l’antica civiltà. Tutto quello che la Spagna (e i popoli che se le assomigliano) si distingue dagli altri d’Europa (prescindendo dalle differenze di necessità occasionate dal clima e carattere nazionale: differenze che si trovano fra tutte l’altre nazioni anche civilissime) appartiene alla barbarie de’ tempi bassi, è una derivazione, o piuttosto una continuazione di quella. Se la Spagna differisce dalle altre europee e dalle sue vicine, più che tutte queste altre non differiscono tra loro anche tra le più lontane ciò non accade perch’ella abbia nulla d’antico o conservato o racquistato, ma perch’ella ha conservato della barbarie dell’età media assai più ella sola che tutte l’altre nazioni civili insieme. Ora i costumi, le opinioni e lo stato propriamente antico favorivano, conducevano, e generavano il grande, ma quelli del tempo basso in generale considerandoli, non hanno mai né favorito né prodotto niente di grande, né sono di natura da poterne produrre o da esser compatibili colla vera grandezza né dell’individuo né molto meno delle nazioni. È un falsissimo modo di vedere quello di considerar la civiltà moderna come liberatrice dell’Europa dallo stato antico. Questo falso concetto guasta generalissimamente il giudizio e il vero modo di pensare sulla storia e le vicende del genere umano e delle nazioni, ed è un errore o una svista sostanzialissima che turba e falsifica tutta l’idea che un filosofo può concepire in grande sulla detta storia e sui progressi o andamenti dello spirito umano. Il risorgimento è stato dalla barbarie de’ tempi bassi non dallo stato antico; la civiltà, le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando e propagandosi non ci hanno liberato dall’antico, ma anzi dalla totale e orribile corruzione dell’antico. In somma la civiltà non nacque nel quattrocento in Europa, ma rinacque. Certo ella non fu totalmente conforme alla prima, anzi beaucoup s’en faut; le circostanze non lo consentirono allora, e ne l’hanno forse più che mai allontanata in progresso, ed allontanano ogni dì più, ma in quanto ella ci rende diversi dagli antichi, si può forse molto dubitare se ella faccia un benefizio agl’individui e alle nazioni e se giovi alla felicità, virtù e grandezza sì degli uni separatamente considerati, e sì dell’altre considerate ciascuna in corpo, e tutte insieme. Il grandissimo e incontrastabile beneficio della rinata civiltà e del risorgimento de’ lumi si è di averci liberato da quello stato egualmente lontano dalla coltura e dalla natura proprio de’ tempi bassi, cioè di tempi corrottissimi; da quello stato che non era né civile né naturale, cioè propriamente e semplicemente barbaro, da quella ignoranza molto peggiore e più dannosa di quella de’ fanciulli e degli uomini primitivi, dalla superstizione, dalla viltà e codardia crudele e sanguinaria, dall’inerzia e timidità ambiziosa, intrigante e oppressiva, dalla tirannide all’orientale, inquieta e micidiale, dall’abuso eccessivo del duello, dalla feudalità del Baronaggio e dal vassallaggio, dal celibato volontario o forzoso, ecclesiastico o secolare, dalla mancanza d’ogn’industria e deperimento e languore dell’agricoltura, dalla spopolazione, povertà, fame, peste che seguivano ad ogni tratto da tali cagioni, dagli odii ereditarii e di famiglia, dalle guerre continue e mortali e devastazioni e incendi di città e di campagna tra Re e Baroni, Baroni e vassalli, città e città, fazioni e fazioni, famiglie e famiglie, dallo spirito non d’eroismo ma di cavalleria e d’assassineria, dalla ferocia non mai usata per la patria né per la nazione, dalla total mancanza di nome e di amor nazionale patrio, e di nazioni, dai disordini orribili nel governo, anzi dal niun governo, niuna legge, niuna forma costante di repubblica e amministrazione, incertezza della giustizia, de’ diritti, delle leggi, degl’instituti e regolamenti, tutto in potestà e a discrezione e piacere della forza, e questa per lo più posseduta e usata senza coraggio, e il coraggio non mai per la patria e i pericoli non mai incontrati per lei, né per gloria, ma per danari, per vendetta, per odio, per basse ambizioni e passioni, o per superstizioni e pregiudizi, i vizi non coperti d’alcun colore, le colpe non curanti di giustificazione alcuna, i costumi sfacciatamente infami anche ne’ più grandi e in quelli eziandio che facean professione di vita e carattere più santo, guerre di religione, intolleranza religiosa, inquisizione, veleni, supplizi orribili verso i rei veri o pretesi, o i nemici, niun diritto delle genti, tortura, prove del fuoco, e cose tali. Da questo stato ci ha liberati la civiltà moderna; da questo, di cui sono ancora grandissime le reliquie, ci vanno liberando sempre più i suoi progressi giornalieri; da’ suoi effetti e da’ suoi avanzi e dalle opinioni che li favoriscono proccura e sforzasi di liberarci la nuova filosofia nata, si può dire, non ancor sono due secoli, e intenta propriamente a terminare e perfezionare il nostro risorgimento dagli abusi, pregiudizi (peggiori assai che l’ignoranza), depravazione e barbarie de’ tempi bassi; degna perciò solo di lode e gratitudine e gloria e favore e coltura, e perciò solo utile o almeno perciò principalmente. Questo stato e natura di cose, propriamente parlando, o gli effetti e avanzi suoi, o gli usi, le opinioni e le forme ad essa appartenenti o corrispondenti, amano, difendono, lodano, cercano di ritenere e salvare dalla distruzione a cui sono incamminate i nemici della moderna filosofia, quelli che piangono, condannano, biasimano, oppugnano, combattono la civiltà moderna o i lumi del secolo e i suoi progressi, e quelli che fecero il simile ne’’passati secoli, quelli che richiamano o richiamarono l’antico, e se ne chiamano difensori e conservatori e lo prendono per loro divisa, e gridano e s’indegnano contro la novità; laddove il vero antico è in gran parte quello appunto che essi combattono, e non v’è cosa più propriamente antica di moltissime di quelle che essi chiamano novità e che impugnano come tali e se ne maravigliano gravemente come cose finora ignote al genere umano, e contrarie all’esperienza, e però perniciosissime. Vedi i miei pensieri p. 162-163.
Da questa digressione tornando al proposito, dico che la Spagna in particolare, e seco le nazioni d’Europa o d’altrove che le somigliano più più o manco, benché sottoposte a infiniti inconvenienti ed a uno stato in verità non invidiabile, hanno pur qualche residuo di fondamento alla morale pubblica e privata, oltre alla forza, ne’ pregiudizi stessi e nella ignoranza di tante cose rivelate dai lumi moderni, e nell’avanzo non piccolo della barbarie dell’età media. Il qual fondamento manca all’Italia, senza che sia compensato da quello che la civiltà moderna istessa offre alle nazioni d’Europa e d’America più sociali e più vive di lei.
Gl’italiani hanno piuttosto usanze e abitudini che costumi. Poche usanze e abitudini hanno che si possano dir nazionali, ma queste poche, e l’altre assai più numerose che si possono e debbono dir provinciali e municipali, sono seguite piuttosto per sola assuefazione che per ispirito alcuno o nazionale o provinciale, per forza di natura, perché il contraffar loro o l’ometterle sia molto pericoloso dal lato dell’opinione pubblica, come è nelle altre nazioni, e perché quando pur lo fosse, questo pericolo sia molto temuto. Ma questo pericolo realmente non v’è, perché lo spirito pubblico in Italia è tale, che, salvo il prescritto dalle leggi e ordinanze de’ principi, lascia a ciascuno quasi intera libertà di condursi in tutto il resto come gli aggrada, senza che il pubblico se ne impacci, o impacciandosene sia molto atteso, né se n’impacci mai in modo da dar molta briga e da far molto considerare il suo piacere o dispiacere, approvazione o disapprovazione. Gli usi e i costumi in Italia si riducono generalmente a questo, che ciascuno segua l’uso e il costume proprio, qual che egli si sia. E gli usi e costumi generali e pubblici, non sono, come ho detto, se non abitudini, e non sono seguiti che per liberissima volontà, determinata quasi unicamente dalla materiale assuefazione, dall’aver sempre fatta quella tal cosa, in quel tal modo, in quel tal tempo, dall’averla veduta fare ai maggiori, dall’essere sempre stata fatta, dal vederla fare agli altri, dal non curarsi o non pensare di fare altrimenti o di non farla (al che basterebbe il volere); e facendola del resto con pienissima indifferenza, senz’attaccarvi importanza alcuna, senza che l’animo né lo spirito nazionale, o qualunque, vi prenda alcuna parte, considerando per egualmente importante il farla che il tralasciarla o il contraffarle, non tralasciandola e non contraffacendole appunto perché nulla importa, e per lo più con disprezzo, e sovente, occorrendo con riso e scherno di quel tal uso o costume.
Da tutte le cose considerate di sopra come cagioni della total mancanza o incertezza di buoni costumi in Italia, e della mancanza eziandio di costumi propriamente italiani (la qual mancanza è sempre compagna e causa di mali costumi), segue un effetto reale, che può parere un paradosso, cioè che (siccome v’ha più propriamente costumi) v’ha migliori o men cattivi costumi nelle capitali e città grandi d’Italia, che nelle provincie, e nelle città secondarie e piccole. La ragione si è che in quelle v’ha un poco più di società, quindi un poco più di cura dell’opinion pubblica, e un poco più di esistenza reale di questa opinione, quindi un poco più di studio e spirito di onore e gelosia della propria fama, un poco più di necessità e di cura di esser conforme agli altri, un poco più di costume, e quindi di buono o men cattivo costume. Al contrario di quello che può sembrar verisimile, le città piccole e le provincie d’Italia sono di costumi e di principii assai peggiori e più sfrenati che le capitali e città grandi, che sembrerebbero dover essere le più corrotte, e per tali sono sempre state considerate, e si considerano generalmente anche oggi, ma a torto. In generale egli è certo che dopo la distruzione o indebolimento de’ principii morali fondati sulla persuasione, distruzione causata dal progresso e diffusione dei lumi, si verifica una cosa, che spesso affermata, è stata forse falsa in ogni altro tempo; cioè che nel mondo civile le nazioni, le provincie città, le classi, gl’individui più colti, più politi, sociali, esperimentati nel mondo, istruiti, e in somma più civili, sono eziandio i meno scostumati e immorali nella condotta, e in parte ancora ne’ principii, cioè in quei principii di morale che si fondano sopra discorsi e ragioni al tutto umane. Tutto ciò è esattamente vero nell’Italia in generale, non solamente quanto alle città e provincie, ma eziandio quanto agl’individui e quanto alle classi, almeno almeno a quelle non laboriose, paragonate fra loro. E forse in alcuni luoghi le classi civili si troveranno più morali, per esempio, di più buona fede, anche paragonandole alle classi laboriose; tanta è la diffusione de’ principi distruttivi della morale in Italia come altrove. I quali principii non hanno nelle condizioni basse altra cosa che li compensi, oltre che in esse non sono accompagnati da quegli altri principii che raffreddano le passioni e i desiderii degli uomini illuminati e sperimentati sulla natura e il valore de’ beni umani. Onde la distruzione o indebolimento de’ principii morali (ch’è il più pronto e il più facile effetto della diffusione dei lumi, perché favorito sommamente dalle inclinazioni naturali, e il lume che più agevolmente penetra e si abbraccia) è accompagnato in queste tali condizioni collo stesso ardore di cupidità e di passioni che prima avevano, il quale stato è il più pernicioso,, e il più favorevole, anzi necessario compagno, alla scostumatezza, che mai possa darsi; oltre alla viltà de’ pensieri, alla bassezza d’animo, alla poca stima di se stessi, propria di tali condizioni. Così discorrasi proporzionatamente dell’altre classi, e delle provincie e popolazioni e nazioni comparativamente l’une all’altre. La società che sotto molti aspetti è chiamata e veramente è corruzione, pure infondendo lo spirito di onore mediante l’uso della società, e la stima dell’opinion pubblica che di là nasce, e la gelosia e cura di quel che gli altri pensino e dicano di te, o sieno per pensare e per dire, opera oggidì in modo, che mancando generalmente, più o meno, gli altri principii morali, e gli altri aiuti e garanti della morale, i costumi dove è minor civiltà, cioè corruzione, quivi son più corrotti o vogliamo in somma dir più cattivi. Il che negli altri tempi non poteva aver luogo, perché gli altri fondamenti della morale pubblica e privata non erano distrutti, né mai forse furono così indeboliti; e qualunque altro di tali fondamenti è molto maggiore e più desiderabile e saldo di quel che offre la civiltà /fondamento ben superficiale, nondimeno da tener carissimo perché oramai unico possibile); onde dov’era minor civiltà quivi essendo più di quegli altri fondamenti (che la civiltà ha sempre sapés), la morale doveva esservi migliore che dove era più civiltà. Del resto la civiltà ripara oggi quanto ai costumi in qualche modo i suoi propri danni, quando ella sia in un certo grado: e però non può farsi cosa più utile ai costumi oramai che il promuoverla e diffonderla più che si possa, come rimedio di se medesima da una parte, e dall’altra di ciò che avanza della corruzione estrema e barbarie de’ bassi tempi, o che a questa appartiene, e corrisponde al di lei spirito, e all’impulso espresso e ai vestigi lasciati da lei nelle nazioni civili. Parlando sommariamente e senza dissimulazione, ma chiaramente, la morale propriamente è distrutta, e non è credibile che ella possa risorgere per ora, né chia fino a quando, e non se ne vede il modo; i costumi possono in qualche guisa mantenersi e sola la civiltà può farlo ad essere instrumento a questo effetto, quando ella sia in un alto grado.
Fin qui abbiamo considerato negli italiani la mancanza di società.
A questa si deve anche aggiungere come altra cagione de’ medesimi o simili effetti la natura del clima e del carattere nazionale che ne dipende e risulta. È tutto mirabile e simile a paradosso, quanto vero, che non v’ha né individuo né popolo sì vicino alla freddezza, all’indifferenza, all’insensibilità e a un grado così alto e profondo e costante di freddezza, insensibilità e indifferenza, come quelli che per natura sono più vivaci,più sensibili, più caldi. Collocati questi tali o popoli o individui in uno stato e in circostanze o politiche o qualunque, in cui niuna cosa conferisca all’immaginazione e all’illusione, anzi tutto contribuisca al disinganno, questo disinganno per la vivacità stessa della loro natura e in ragione diretta di essa vivacità è completo, totale, fortissimo, profondissimo.
L’indifferenza che ne risulta è perfetta, radicatissima, costantissima; l’inattività, se si può così dire, efficacissima; la noncuranza effettivissima; la freddezza è vero ghiaccio, come accade nel gran caldo che i vapori sono da esso elevati a tanta altezza che quivi stringendosi nel più duro gelo, precipitano ridotti in gragnuola. I popoli settentrionali meno caldi nelle illusioni, sono anche meno freddi nel disinganno.
Di più sono meno facili a questo disinganno. Poca cosa basta ad alimentare la loro immaginazione e conservare le loro illusioni. Così dico degl’individui poco sensibili. Ma la gran forza del sentimento e dell’immaginazione ha bisogno di molto pascolo, di aiuti vivi, di qualche sostentamento nelle cose reali. Altrimenti rivolgendo la sua forza e il suo calore in se stessa si consuma da se tanto più presto e più completamente quanto essa forza ed esso calore è più grande ed attivo. Uno spirito delicato messo a contatto della durezza delle cose reali, e confricato per così dire con essi, diviene tanto più presto e tanto maggiormente ottuso quanto era più acuto e più fino, e tanto più facilmente e profondamente incallisce, quanto era più delicato tenero e molle. Così accade nel fisico, così nel morale. Or dunque se noi consideriamo da una parte questa proprietà inseparabile dagli spiriti vivaci e sensibili, cioè di cadere tanto più facilmente e altamente nelle qualità contrarie (proprietà comune a tutti gli eccessi sempre proclivi e vicini ai loro opposti), e ciò anche in parità delle altre circostanze rispetto agli spiriti riposati e temperati o freddi e insensibili per natura; e dall’altra parte che non solo questa parità di circostanze nel nostro caso non ha luogo, ma che l’Italia è in uno stato, quanto alle cose reali che favoriscono l’immaginazione e le illusioni, molto inferiore a quello di tutte l’altre nazioni civili (parlo delle circostanze della vita e non di quelle del clima e naturali, che anzi nocciono per le dette ragioni); non ci maraviglieremo punto che gl’italiani la più vivace di tutte le nazioni colte e la più sensibile e calda per natura, sia ora per assuefazione e per carattere acquisito la più morta, la più fredda, la più filosofa in pratica, la più circospetta, indifferente, insensibile, la più difficile ad esser mossa da cose illusorie, e molto meno governata dall’immaginazione neanche per un momento, la più ragionatrice nell’operare e nella condotta, la più povera, anzi priva affatto di opere d’immaginazione (nelle quali una volta, anzi due volte, superò di gran lunga tutte le nazioni che ora ci superano), di poesia qualunque (non parlo di versificazione), di opere sentimentali, di romanzi e la più insensibile all’effetto di queste tali opere e generi (o proprie o straniere). E d’altra parte non farà maraviglia che i popoli settentrionali e massime i più settentrionali sieno oggi i più caldi di spirito, i più immaginosi in fatto, i più mobili e governabili dale illusioni, i più sentimentali e di carattere e di spirito e di costumi, i più poeti nelle azioni e nella vita, e negli scritti e letterature. Questa è una verità di fatto che salta agli occhi, sebben sembra singolare e mostruosa. E per recare un esempio, dove mai si potrebbe se non in Germania e nel fondo del settentrione, mantenere e sussistere a’ tempi nostri e in tanto dissipamento d’illusioni, la società dei Fratelli Moravi e molti altri simili stabilimenti e costumi fondati sopra la sola forza dell’opinioni? e opinioni certo non conformi all’esatta, secca e fredda filosofia geometrica-moderna. Che dirò del quakerismo che ancora dura? e di cento simili cose d’Inghilterra, Germania, e degli altri popoli del nord. Né mi si oppongano simili pratiche religiose o qualunque degl’italiani, perché queste in Italia, come ho detto, sono usi e consuetudini, non costumi, e tutti se ne ridono, né si trovano più in Italia veri fanatici di nessun genere, appena tra quelli che per istato hanno interesse alla conservazione di questa o quella specie di fanatismo e d’illusioni. Certo le dette pratiche de’ settentrionali sanno affatto di antico e niente di moderno, e paiono incompatibili co’ tempi nostri, e quasi innesti dell’antichità in essi tempi. E notisi che esse pratiche sono in gran parte, e forse le più, di origine modernissima, anzi nate dalle moderne rivoluzioni di opinioni e di politica, e giornalmente ne nascono di simili.
Tutto questo, torno a dire, sembra mostruoso e contraddittorio, se non si spiega colle considerazioni fatte sopra. Ma tant’è. I popoli meridionali superarono tutti gli altri nella immaginazione e quindi in ogni cosa, a’ tempi antichi; e i settentrionali per la stessa immaginazione superano di gran lunga i meridionali a’ tempi moderni. La ragione si è che a’ tempi antichi lo stato reale delle cose e delle opinioni ragionate favoriva tanto l’immaginazione quanto ai tempi moderni la sfavorisce. E però in pratica l’immaginazione de’ popoli meridionali era tanto più attiva di quella de’ settentrionali quanto è ora al contrario, perché la freddezza della realtà ha tanta più forza sulle immaginazioni e sui caratteri quanto essi sono più vivi e più caldi. E certo le nazioni settentrionali, e massime il popolo, sono molto più paragonabili e simili oggidì alle antiche che non sono le nazioni, e massime il popolo, del mezzogiorno, laddove è pur certo che dovendo sceglier tra i climi e tra i caratteri naturali dei popoli una immagine dell’antichità niuno dubiterebbe di scegliere i meridionali, e i settentrionali viceversa per immagini del moderno.
A proposito delle quali osservazioni, sia detto di passaggio che io non dubito di attribuire in gran parte la decisa e visibile superiorità presente delle nazioni settentrionali sulle meridionali, sì in politica, sì in letteratura, sì in ogni cosa, alla superiorità della loro immaginazione. Né questa, né quella per conseguenza sono da considerarsi per cose accidentali. Sembra che il tempo del settentrione sia venuto. Finora ha sempre brillato e potuto nel mondo il mezzogiorno. Ed esso era veramente fatto per brillare e prepotere in tempi quali furono gli antichi. E il settentrione viceversa è propriamente fatto per tenere il disopra ne’ tempi della natura de’ moderni. Ciò si vide in parte, per circostanze simili de’ popoli civili nelle età di mezzo. E come la detta natura e disposizione de’ tempi moderni non è accidentale né sembra potere essere passeggera, così la superiorità del settentrione non è da stimarsi accidentale né da aspettarsi che passi, almeno in uno spazio di tempo prevedibile. L’abbondanza e l’eccesso della vita cede alla mediocrità ed anche alla scarsezza della medesima, da poi che quella non ha più come alimentarsi nella realtà delle cose e dello stato sociale, e che le opinioni ragionate contrastano seco e l’opprimono.
Come la vita e la forza interna e dello spirito è naturalmente maggiore ne’ meridionali, e negl’individui sensibili e ne’ fini ingegni, che non è negli altri, perciò essi sono nelle loro azioni e nel loro carattere più determinati e governati, per dir così, dall’animo, e meno macchinali che gli altri popoli e individui.
Quindi è che quando i principii e le persuasioni loro sono contrarie alle illusioni, fredde, conducenti all’indifferenza, all’aridità, al puro calcolo, anche i caratteri e le azioni loro sono al tutto e costantemente fredde, calcolate, indifferenti, insensibili, più assai che negli altri popoli e individui anche più istruiti, più filosofi, più fondati e provveduti di principii contrarii alle illusioni e all’immaginoso, e conducenti alla freddezza, indifferenza, insensibilità. La corrispondenza tra i principii e la pratica è molto maggiore e più costante in quelli che non è negli altri.”
ELO